Universalitas & Pervasivitas – In altri mondi - Attività missionaria -
di A. Pisani

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“Ite, incendite, inflammate omnia”. Con questo motto, dedicato all’attività missionaria del suo ordine, Ignazio riuscì a sintetizzare i caratteri precipui dell’essere gesuita: il movimento e la volontà di cambiare, proprio come il fuoco si muove e trasforma ciò con cui viene a contatto.

La scelta di dedicarsi all’attività missionaria risale ai primordi della Societas, quando Ignazio e i suoi dieci compagni decisero di rinunciare ai beni materiali e a ogni tipo di funzione nella gerarchia ecclesiastica, sì da essere al massimo grado liberi nella loro opera di evangelizzazione e di difesa dalle eresie.

“Abbandonato l’iniziale progetto di pellegrinaggio a Gerusalemme che risentiva ancora dell’ideale medievale della crociata, si era scelto un ministero sacerdotale, itinerante: le ‘missioni’, come spedizioni temporanee per ‘aiutare le anime’ dove fosse necessario. Era una scelta di impegno attivo, che – insieme alla rinuncia (antimonastica) alla recita del breviario – caratterizzava il nuovo Ordine come un organismo dalla grande mobilità. Pochi anni dividono il progetto di partire per Gerusalemme dall’approdo in India di Francesco Saverio. Ma in quel mutamento di rotta è ravvisabile una svolta carica di conseguenze. Le missioni furono assunte come compito proprio dalla Compagnia di Gesù fin dagli inizi della sua esistenza: la materia non le apparteneva in maniera esclusiva, ma l’importanza che i gesuiti le riconobbero e gli strumenti che elaborarono li resero un punto di riferimento essenziale per chi desiderava dedicarsi ad ‘aiutare gli altri’ (la loro parola d’ordine). Non è un caso che i due significati complementari di ‘missione’ – ‘mandato apostolico di predicazione del Vangelo, specialmente tra le popolazioni non cristiane’ e ‘sede di missione in terra non cristiana’ – si trovino registrati nella letteratura gesuitica. Il fine delle missioni fu la conversione dei cuori, opposta a quella conversione superficiale dei battesimi forzati che apparve dovunque una fonte di simulazioni e di problemi infiniti.” 

I gesuiti non furono certo i primi a spingersi negli angoli più remoti del pianeta per diffondere il Vangelo, ma sicuramente lo furono nel comprendere la necessità di adattare le strategie di evangelizzazione a ogni particolare contingenza, capirono cioè che le selvagge popolazioni dell’Amazzonia non potevano ricevere lo stesso trattamento che era invece adeguato per i raffinati uomini di corte cinesi, né quello da adottare con i contadini dell’Europa centrale, caratterizzati da una religiosità primitiva e superstiziosa nonché facili prede della propaganda riformista.

In certe aree, più che il pericolo dell’eresia, il vero problema era l’ignoranza, il persistere della superstizione, l’imbattuta fiducia in antichi riti, aspetti, tutti, contro i quali la pur attiva ed efficiente Inquisizione aveva ben poca presa. L’apostolato nelle “Indie di quaggiù” aveva quindi il compito di scalzare questi antichi riti e solide superstizioni tramite la persuasione e non con la repressione inquisitoriale. Ma per fare ciò il primo compito era quello di insegnare i rudimenti del cristianesimo della Chiesa post-tridentina a individui che, seppur formalmente appartenenti a questa stessa Chiesa, in pratica ne erano lontani quanto gli abitanti dell’Asia o delle Americhe.

Questa adattabilità farà loro conseguire, in poco tempo, lusinghieri successi ma, parallelamente, porterà a divisioni interne e ad attacchi esterni sia da parte delle gerarchie ecclesiastiche, sia da parte di altri ordini religiosi, sia da parte di autorità civili timorose di vedere intaccati gli equilibri dell’espansione coloniale (basta pensare alla questione del padroado portoghese) e di veder messi in discussione i loro metodi di amministrare le colonie. A complicare le cose, poi, c’era anche la possibilità che questi tre tipi di soggetto (altri ordini, gerarchie ecclesiastiche e autorità civili) agissero di concerto per cui una disputa tra i gesuiti e un altro ordine  poteva servire da pretesto per un intervento delle gerarchie ecclesiastiche le quali, a loro volta, potevano essere sollecitate ad agire da stati che cercavano di sfruttare la situazione per modificare equilibri coloniali.

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