Esposizione et alia
8 febbraio – 7 aprile 2018
Nell'ultimo anno delle commemorazioni per il Centenario della Grande Guerra l'ultima esposizione del ciclo è particolarmente ricca con ben dodici sezioni.
L'ultimo anno di guerra sarà sondato, come negli anni precedenti, attraverso cimeli, libri e riviste e fotografie di vario genere secondo i seguenti argomenti: Dopo Caporetto: da Cadorna a Diaz; La Regia Marina tra navigli e velivoli; Le imprese di Luigi Rizzo e compagni; L'aviazione e i voli dannunziani; Il servizio di propaganda e i "giornali di trincea"; Il fronte interno e le donne in guerra; I prigionieri di guerra; Il "sacro suolo" violato; Italiani in Francia, francesi in Italia; L'influenza "spagnola"; I "ragazzi del '99" e Vittorio Veneto; Il mito della "vittoria mutilata".
A coronamento delle sezioni sarà dedicato uno spazio specifico a Gli eroi di Premuda, ossia Giuseppe Aonzo, Luigi Rizzo e Armando Gori. In particolare verranno esposti per la prima volta i cimeli di Armando Gori catalogati e scelti grazie a un'esperienza di alternanza scuola - lavoro col Liceo Classico Colombo di Genova.
Di tutte le manifestazioni collaterali alla mostra viene data informazione nella sezione 'eventi' del nostro sito web.
Per le scuole sono previste visite guidate e laboratori.
Orario mostra: da lunedì a venerdì ore 9,00-18,00 – sabato ore 9,00-13,00
Ingresso libero
Il 4 novembre è una ricorrenza il cui significato sfugge ormai ai più. Eppure rappresenta la data ufficiale dell’unica vittoria italiana in un conflitto importante (tralasciando, quindi, quelli risorgimentali e quelli coloniali), la Grande Guerra, che coinvolse cinque milioni di connazionali sotto le armi, la guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre e che invece si rivelò soltanto un episodio, per quanto duro e doloroso, all’interno di una più ampia guerra civile europea durata oltre un quarantennio (1914-1945), al termine della quale il continente che per 500 anni aveva dominato il mondo si ritrovò sconfitto, impoverito, devastato e privato di ogni libertà d’azione.
A un secolo di distanza, nell’ambito delle manifestazioni culturali organizzate per ricordare il Centenario della Grande Guerra, una mostra dedicata al 1918 non può che avere un duplice significato, divulgativo e riparatore. Divulgativo nei confronti delle giovani generazioni di oggi, che stanno perdendo rapidamente la memoria (e la scuola sovente non le aiuta a recuperarla) di avvenimenti apparentemente così lontani nel tempo, ma così importanti e pregnanti di significato da essere assurti a spartiacque fra due ere, fra un prima e un dopo. Riparatore nei confronti delle giovani generazioni di allora, che furono mandate a morire in nome di un preteso ideale patriottico, che in realtà celava molto più prosaiche aspirazioni a un’espansione territoriale e imperialistica, degna delle altre grandi potenze e in linea con le esigenze di uno stato giovane e ancora demograficamente esuberante come l’Italia dell’epoca.
Ecco, dunque, la ragione del titolo e del sottotitolo: Grande Guerra 1918: l’anno della vittoria? Dove il punto interrogativo finale vuole appunto sottolineare l’indeterminatezza dei risultati che, quella più di altre guerre, ebbe dopo cinque tremendi anni di massacri insensati, assalti sanguinosi all’arma bianca contro reticolati e mitragliatrici, punizioni esemplari nei confronti dei renitenti e dei riottosi e milioni di vite seppellite in trincee sporche, fangose, malate e puzzolenti. Per l’Italia, inoltre, la fine della guerra significò non il ritorno della pace, ma l’inizio di una semi-guerra civile (impresa di Fiume, biennio rosso, nascita dei Fasci) che finì con lo sfociare in una dittatura ventennale.
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Il 1918, ultimo anno di guerra, vide la reazione generale del paese dopo il disastro di Caporetto. La guerra da offensiva divenne difensiva: si trattava di impedire al nemico di invadere tutta la pianura padana oltre il nuovo fronte del Piave, lungo il quale si raccolsero e si attestarono le truppe dopo la rotta.
Il comando supremo, ora sotto la guida del generale napoletano Armando Diaz, con Pietro Badoglio e Gaetano Giardino come vice-capi di stato maggiore, riprese il controllo della situazione e modificò la strategia, eliminando le sanguinose “spallate” di Luigi Cadorna, gli esiziali attacchi frontali all’arma bianca contro trincee e mitragliatrici che erano costati la perdita di centinaia di migliaia di soldati inutilmente.
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Sotto la guida di Luigi Cadorna, il carattere fortemente punitivo delle pene comminate ai soldati aveva una funzione esemplare e preventiva, poiché, oltre a punire il reo, doveva fungere da deterrente contro eventuali atti di ribellione, fughe davanti al nemico o scarso spirito di sacrificio nei confronti della patria. In un esercito di contadini poveri e analfabeti e di cittadini riottosi e di tendenze socialiste (come li vedeva il Generalissimo), non c’era posto per la libera discussione: gli ordini erano ordini e andavano rispettati, anche quando apparivano insensati.
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La guerra marittima dell’Italia fu condotta prevalentemente nell’Adriatico, dove la conformazione geofisica delle coste orientali, frastagliate, rocciose e articolatissime, avvantaggiava la flotta austro-ungarica, offrendo una protezione naturale, mentre le coste italiane non presentavano basi altrettanto munite (Venezia, Ancona e Brindisi).
La Regia Marina adottò una strategia di sorveglianza delle rotte marittime grazie anche all’Aviazione Navale da essa dipendente. Infatti, nel corso del conflitto nacquero alcune componenti destinate a diventare veri punti di forza, per allora e per il futuro: i Mezzi d’Assalto, l’Aviazione Navale, appunto, e la Fanteria di Marina.
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Il MAS, motoscafo armato silurante o motoscafo antisommergibile (ma inizialmente motobarca armata SVAN, dalla sigla della Società Veneziana Automobili Navali dell’ingegnere Attilio Bisio che per prima produsse tali tipi di motoscafi militari) era una piccola e agile imbarcazione con motore a benzina usata sin dal 1916 dalla Regia Marina. Impiegato sia come pattugliatore anti-sommergibile sia come mezzo d’attacco, il MAS pesava dalle 20 alle 30 tonnellate, poteva trasportare 10 uomini di equipaggio, raggiungeva la velocità di 27-30 nodi ed era armato con due siluri, alcune bombe di profondità e una mitragliatrice o un cannone di piccolo calibro.
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Allo scoppio delle ostilità, l’Italia possedeva circa 150 aerei, 91 piloti, 20 osservatori e 20 allievi piloti. Dato lo stato ancora embrionale dell’industria aeronautica in Italia, furono ben presto acquistati numerosi aerei esteri, per lo più francesi. Tuttavia, allo stesso tempo fu dato forte impulso alla creazione di un apparato industriale che potesse garantire una consistente produzione di aeromobili su scala locale. Da un punto di vista tattico, l’aviazione italiana aveva il problema di dover superare le Alpi per portare eventuali attacchi in territorio nemico.
Allo stesso tempo, molte delle aree che ricadevano nel raggio di azione dei propri aerei erano territori che l’Italia sperava di acquistare in seguito al conflitto, e quindi aveva poco senso bombardarle.
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Dopo la rotta di Caporetto venne istituito, nel marzo del 1918, il Servizio P (Propaganda) con il compito di rialzare il morale delle truppe, vigilare sulla condizione umana e spirituale dei soldati, assisterli nella comunicazione con le famiglie e motivarli sulla necessità della guerra. Per questa funzione furono incaricati diverse centinaia di ufficiali denominati “P”, che vennero distribuiti nelle armate ed ebbero tra le loro fila intellettuali, artisti e uomini di spettacolo come Piero Calamandrei, Giuseppe Lombardo Radice, Giuseppe Prezzolini, Ardengo Soffici e Gioacchino Volpe. Erano incaricati di limitare il malcontento non solo preparando materiale propagandistico di vario genere, ma soprattutto occupandosi del benessere morale e materiale delle truppe.
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In tutti i paesi coinvolti nella guerra nacque un nuovo concetto che intendeva coinvolgere l’intera nazione in questo avvenimento: il “fronte interno”. L’intento delle autorità era far partecipare al clima bellico non solo i soldati o le popolazioni che, per loro sfortuna, abitavano vicino al confine austro-ungarico, ma indistintamente tutti gli italiani. Parallelamente, fu anche un ottimo modo per evitare che dilagassero idee pacifiste, neutraliste o anti-italiane. Tutto il paese fu soggetto a un’applicazione delle leggi in pieno stile militare con pene molto severe, paragonabili alle punizioni registrate sul fronte nel periodo di Cadorna. Alcuni reati, anche se commessi lontano dal fronte, furono giudicati da un tribunale militare: 60.000 civili, a esempio, furono condannati per aver manifestato apertamente il proprio dissenso verso la guerra o aver espresso pubblicamente il proprio disfattismo (specialmente dopo Caporetto).
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Non bisogna pensare che tutti i prigionieri fossero il frutto di azioni militari. Molti, in realtà, si “lasciarono” catturare, fuggendo dalla prima linea e presentandosi nei pressi delle postazioni nemiche. Era una scelta disperata, ma dettata dalla speranza di trovare, nei campi di prigionia, delle condizioni migliori rispetto a quelle in trincea. Invece, anche la detenzione fu un’esperienza molto difficile. La mancanza di riscaldamento nelle baracche e di vestiti pesanti rendeva insopportabile il freddo pungente, mentre il rancio non era davvero scadente. Data la grandissima penuria di farina all’interno dell’Impero, spesso questa veniva mischiata con della polvere derivata dalla macinazione delle ghiande o della paglia, mentre al posto della pasta veniva loro distribuita una brodaglia di patate e cavolo.
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La ritirata dopo Caporetto lasciò in balia del nemico oltre 14.000 chilometri quadrati di territori friulani e veneti, abitati da circa un milione e mezzo di civili, che avrebbero subito per un anno l’occupazione austro-tedesca. Gli invasori misero a ferro e fuoco le terre friulane e venete, abbandonandosi a violenze, stupri e sistematici saccheggi. Era il prezzo da pagare, secondo gli austro-tedeschi, per il tradimento della Triplice Alleanza da noi perpetrato nel maggio del 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell’Intesa.
Particolarmente dura fu la punizione nei confronti di quelle città - come ad esempio Gorizia - che, appartenenti prima della guerra all’Impero austro-ungarico, erano state occupate dagli italiani nel corso delle precedenti 11 battaglie dell’Isonzo e i cui abitanti avevano osato fraternizzare con quelli che per loro dovevano essere i “nemici”.
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I primi italiani impegnati sul fronte francese furono i volontari garibaldini inquadrati nei reggimenti della Legione Straniera nel 1914 e inviati nell’Argonne tra la fine del 1914 e i primi del 1915. La Legione Garibaldina (formalmente 4e régiment de marche du 1er étranger) era composta interamente da patrioti italiani di tendenze repubblicane e socialiste, contrari all’entrata in guerra del paese a fianco degli Imperi Centrali e favorevoli, invece, a combattere a fianco dell’Intesa, che ebbero il privilegio di indossare la camicia rossa sotto l’uniforme francese e che furono posti al comando del colonnello Peppino Garibaldi, nipote dell’Eroe dei Due Mondi.
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L’influenza “spagnola” è così chiamata poiché l’insorgere e la diffusione della pericolosa malattia vennero divulgati per la prima volta dai giornali della Spagna non soggetti alla censura di guerra. Negli stati belligeranti, invece, tali notizie non vennero diffuse per non demoralizzare ulteriormente la già provata popolazione. In realtà, il virus fu portato in Europa dalle truppe del Corpo di Spedizione Americano che, a partire dall’aprile del 1917, erano confluite in Francia. Dalle analisi effettuate sui corpi di alcuni militari americani deceduti per l’influenza, i ricercatori hanno potuto ricavare dei frammenti del virus e studiarlo alla luce delle attuali conoscenze.
Allo scoppio dell’epidemia, il conflitto durava ormai da quattro anni ed era diventato una guerra di posizione: milioni di militari vivevano quindi ammassati sui vari fronti, in trincee anguste con condizioni igieniche terribili che favorivano la diffusione del virus.
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“Gli ultimogeniti della Madre sanguinosa” (come li definì d’Annunzio) quando scoppiò la guerra erano poco più che bambini; tre anni dopo si sarebbero ritrovati in trincea: erano i ragazzi nati nel 1899, l’ultima classe di leva italiana richiamata alle armi durante la Grande Guerra. I primi contingenti di giovanissimi italiani, circa 80.000 minorenni (la maggiore età si raggiungeva ai 21 anni), furono chiamati all’inizio del 1917 e, sbrigativamente istruiti, vennero inquadrati in battaglioni di milizia territoriale.
Alla fine di maggio se ne aggiunsero 180.000 e altri in minor numero nel mese di luglio. Nei giorni successivi alla disfatta di Caporetto, i primi ragazzi del ‘99 furono inviati al fronte. Molti di loro ottennero di far parte dei reparti d’assalto degli Arditi, affascinati dalla loro fama di eroi senza paura.
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“Vittoria nostra, non sarai mutilata”. Gabriele d’Annunzio pubblicò sulle colonne del “Corriere della Sera” (24 ottobre 1918) l’espressione che avrebbe segnato ogni fase di revanscismo nazionalista nella storia italiana del primo dopoguerra. Con l’apertura delle consultazioni per la Conferenza di Pace di Parigi (gennaio del 1919), furono la città di Fiume e la regione della Dalmazia sulla costa adriatica nord-orientale (non comprese negli accordi del Patto di Londra del 26 aprile 1915) che incarnarono le membra mutilate del territorio nazionale italiano (l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria), dando luogo all’impresa di Fiume (1919-1921).
Dopo la vittoria, l’Italia dovette affrontare una pesante situazione interna, che i partiti tradizionali dello Stato liberale non furono in grado di risolvere. Il paese versava in gravi difficoltà economiche e sociali, che andavano dalla disoccupazione alla riconversione industriale, al reinserimento dei reduci, al nuovo ruolo delle donne anche nel mondo del lavoro. I ceti medi e le classi a reddito fisso furono le più danneggiate dall’inflazione causata dalle enormi spese militari. La rabbia della classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni e agitazioni nelle fabbriche contro il taglio degli stipendi.
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Organizzata da:
Biblioteca Universitaria di Genova
Direttore:
Roberto Marcuccio
A cura di:
Aldo Caterino
Anita Ginella
In collaborazione con:
Armanda Bertini
Alessandra Bertini
Emilio Bertocci
Mariangela Bruno
Marco Marconcini
Guido Saltini
Classe IV E del Liceo Classico Statale Cristoforo Colombo (GE)
Grafica:
Caterina Ascheri
Comunicazione e laboratori didattici:
Oriana Cartaregia
Alberto Nocerino
Impianti:
Vincenzo Landi
Con il contributo di:
Fondazione Ansaldo, Genova
Museo Civico Andrea Tubino, Masone (GE)
Con il patrocinio di:
Comune di Genova