UNIVERSALITAS & PERVASIVITAS. IL COSTITUIRSI E DIFFONDERSI DELLA S.J. E SUOI ECHI (1540-1773) - Incipit - di A. Pisani

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Per i sentimenti suscitati il Gesuita è accomunato per lo meno a un’altra figura: quella dell’Ebreo. Anche dell’Ebreo sono evidenziati ora l’intelligenza ora l’astuzia, ora l’adattabilità ora la capacità di insinuarsi e dissimularsi, ora l’emarginazione dai centri del potere ora l’impersonificazione del potere occulto. Se l’immaginario collettivo può facilmente trovare per la “natura” dell’Ebreo pseudo-spiegazioni intrinseche (i cosiddetti fattori “razziali”) o estrinseche (la reazione di una collettività di minoranza nei confronti delle pressioni esercitate dalla collettività predominante che la ospita - e cioè, in definitiva, dal cristianesimo), per il Gesuita un simile tipo di “spiegazione” non è certo percorribile, non essendo questi accomunato ai suoi confratelli da una “razza” specifica né essendo differenziato per fede dai componenti delle collettività in cui vive  (con l’esclusione, è chiaro, almeno degli esordi della loro epopea missionaria). Sembra però che tanto gli ebrei quanto i gesuiti, e dunque gli appartenenti a due collettività numericamente esigue, abbiano offerto alla società e alla storia una maggiore proporzione di loro rappresentanti di spicco rispetto alla media presentata dalla collettività in cui operano. Questo, almeno, in apparenza, in quanto la tipicizzazione di queste figure ha fatto sì che ogni qual volta un loro rappresentante raggiungesse, in positivo o in negativo, una particolare posizione si sottolineasse la sua appartenenza a questa o quella collettività, mentre ciò di norma non si verifica in altri casi e soprattutto quando un risultato conseguito non ha alcun legame con la sua appartenenza a una collettività. Si è verificato, e si verifica, quindi, che si parli di un consigliere del re o di uno scienziato ebreo o gesuita ma ben raramente si sottolinei la sua appartenenza a una comunità evangelica o il fatto di essere basco o lucano. Se, per amore della discussione, si prende per buona l’eccellenza di queste due figure, di questi due stereotipi, si può anche tentare di azzardarne una spiegazione. In questa prospettiva si possono identificare alcuni tratti comuni alle figure tipicizzate del Gesuita e dell’Ebreo, tratti che non solo consentono di offrire un’interpretazione assai ragionevole della loro eccellenza (sempre tenendo ben presente che una componente di questa eccellenza altro non possa essere che una proiezione esterna, una proiezione cioè dei sentimenti, benevoli o malevoli, di chi interagisce con rappresentanti di queste collettività) ma anche delle passioni che gravitano attorno alle loro figure. Il primo tratto è quello del fortissimo senso di appartenenza alle loro rispettive comunità, sebbene ben diverse siano le condizioni e le finalità: il Gesuita, rappresentante della religione predominante, vive la sua appartenenza all’Ordine come a una militia finalizzata a favorire il trionfo finale e globale dell’opera di evangelizzazione, l’Ebreo, vive invece nella diaspora, è il testimone di una fede non solo largamente minoritaria ma spesso anche perseguitata e, per quanto combattuta e lacerante possa essere l’appartenenza alla sua comunità (si pensi solamente all’immagine che i comici ebrei tratteggiano di loro stessi), vede motivato e giustificato il suo attaccamento attraverso un ventaglio di sentimenti che vanno dal desiderio di non vedere definitivamente estirpate le proprie radici, alla sua convinzione di appartenere al popolo eletto, fino, per i più religiosi (paradigmatico è il misticismo di cabalisti quali Luria e i suoi discepoli), al conformarsi al compito affidato dalla divinità a Israele di raccogliere le scintille divine rimaste imprigionate nel mondo materiale per accelerare così la finale riunione del Tutto nell’Uno. Il secondo tratto comune è quello che entrambe le comunità possono essere definite, certo operando grosse generalizzazioni e lasciando spazio a non pochi distinguo, “comunità del libro”. Il Libro sacro, certo, ma anche il libro di studio, l’importanza data allo studio, all’interpretazione minuta, fino a diventare ossessiva, di fatti, fenomeni, passi scritturali e articolazioni della pura teoresi, unita alla capacità, stimolata e perseguita tanto nelle yeshiva ebraiche quanto nei collegia gesuitici, della rapida sintesi, del pensiero folgorante che sorpassa gli altri non sullo stesso piano bensì ascendendo ad altra dimensione. Il terzo tratto è quello dell’adattabilità la quale significa, innanzitutto, intelligenza, in particolare intelligenza dell’ambiente circostante, e volontà, soprattutto in funzione di una sopravvivenza finalizzata al trionfo di un’istanza superiore. Se le circostanze che costrinsero gli ebrei a esercitare la loro capacità di adattamento sono, ormai per ovvie ragioni, a tutti note, non deve sfuggire tuttavia il fatto che non minore adattabilità dovettero possedere i padri gesuiti capaci di venire a capo non solo delle diversissime situazioni presentate dalle varie missioni, ma anche quelle non meno complicate, e forse solo materialmente meno pericolose, offerte dalla curia romana e dalle corti in cui si trovarono a operare. Se si pensa, allora, a individui caratterizzati da queste qualità (senso di appartenenza al gruppo, elevata preparazione culturale e adattabilità alle più diverse situazioni) è facile capire come per questi sia più elevata la probabilità di eccellere sulla massa e, parimenti, come possano essere spinti all’eccesso i sentimenti di chi li osserva dall’esterno: di esaltazione da parte di chi vede in loro dei modelli da imitare ma che per qualche motivo (perché non ebreo, perché impossibilitato a pronunciare i voti sacerdotali...) non può del tutto assimilarsi a loro, di disprezzo o addirittura di odio da parte di chi, indulgendo a quella presunzione paranoide del complotto tipica soprattutto di un certo cristianesimo, sopravvaluta le loro reali capacità e ne fa gli artefici di ogni disgrazia personale o collettiva.

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