Che cosa ci si può aspettare, dal punto di vista eno-gastronomico, da una terra aspra, dura, rocciosa, ricca di alberi, ma povera di acqua, estremamente difficile da coltivare? Niente, direte voi…Invece la Liguria riserva una serie di sorprese capaci di stuzzicare i palati anche più raffinati. Di solito, guardando alle cucine tradizionali delle altre regioni italiane, si parla giustamente di cucina “del territorio”, perché è da esso che si traggono ricchezza e varietà dei prodotti: dall’agricoltura, dall’allevamento, dalla pesca nelle acque interne o nei mari... il territorio è il punto di riferimento per ricostruire le culture eno-gastronomiche. Nel caso della Liguria, invece, la storia è un po’ diversa, perché, a parte le poche materie prime di produzione locale, la sua impronta porta in sé un’anima commerciale, che ha conferito varietà alla sua cucina senza passare necessariamente dal territorio, ma attraversando mari e terre di paesi lontani, da cui derivarono abitudini vive ancora oggi. Per esempio, ricordiamo l’uso frequente di frutta secca come noci e pinoli, ingredienti tipici del Medio Oriente, che ritroviamo rispettivamente nella salsa di noci e nel pesto. Addirittura la pasta sembra sia stata “importata” da un genovese dalla Mongolia, ispirando così la tradizione delle trenette e delle trofie. Olive e olio giunsero in tempi lontani dal centro e dal sud Italia, probabilmente al seguito dei monaci benedettini, diventando poi coltura dominante e caratteristica peculiare della cucina ligure.
In Liguria, inoltre, occorre fare attenzione a distinguere due tradizioni culinarie diverse: quella genovese, aperta a influenze da tutto il mondo, e quella, decisamente più povera e frugale, dell’entroterra e delle altre località costiere. La storia della gastronomia a Genova è legata specificamente alle vicende della città. Per gli antichi romani, il borgo abitato dai Liguri Genuati era un semplice “approdo” naturale lungo la rotta per la Provenza, non un porto vero e proprio, perché il territorio alle spalle non aveva nulla da offrire se non montagne impervie e pendenze ardite, che non lasciavano prevedere nessuna possibilità di sviluppo. Così le navi vi approdavano per approvvigionarsi d’acqua o in attesa che si placasse una tempesta, per poi ripartire verso la più rigogliosa Gallia o fare una sosta durante il rientro a Roma. Nell’entroterra, l’unico frutto che cresceva era il castagno; nelle valli perennemente in ombra nemmeno i fichi maturavano gustosi: non c’era davvero niente di invitante per cui fermarsi.
La città cominciò a prendere forma soltanto durante il dominio bizantino, imponendosi come porto strategico lungo le rotte da e verso Costantinopoli. Risale a tale periodo l’inizio della fortuna di Genova e dei suoi abitanti, che seppero accumulare dal nulla grandi ricchezze, anticipando di secoli l’economia moderna. Essi non erano contadini, non erano pescatori e non erano neppure allevatori, ma divennero grandi monopolisti di materie prime già nell’Alto Medioevo, battendo le rotte mediterranee dalla Spagna al Nord Africa e anche oltre. Da piccolo emporio legato a un presidio militare, Genova ben presto si trasformò in un ricco porto commerciale, in grado di stoccare grandi quantità di materie prime essenziali (come il grano), tenendole di scorta e immettendole sul mercato in modo speculativo in periodi di carestia, in modo da spuntare il prezzo più conveniente. La necessità di mettere da parte “prodotti a lunga scadenza” diede impulso a una cucina basata su ingredienti facilmente conservabili, dalle acciughe sotto sale alla pasta secca, dai formaggi stagionati alle gallette da marinaio. Salse a base di frutta secca, poi frutta candita, confetti e zuccherini furono invenzioni dei genovesi, i quali non solo iniziarono a mescolare fra loro ingredienti provenienti da varie parti del mondo, ma anche a dilettarsi nel creare cibi “capricciosi”, come appunto i canditi.
Bisogna infatti riconoscere ai genovesi il merito di avere scoperto un sistema di glassatura per conservare a lungo le arance, che un tempo crescevano in abbondanza sul litorale ligure, per poi venderle - a caro prezzo - agli inglesi e agli olandesi, che ne facevano scorta per combattere lo scorbuto sulle navi. È un riconoscimento innegabile dire che avevano un innato senso degli affari, espressione di un sistema di import-export alquanto spregiudicato, che avveniva sia con l’Oriente che con l’Occidente, distinguendosi in ciò da Venezia, che guardava solo verso il Levante. Il che, anche da un punto di vista gastronomico, fa una certa differenza: i genovesi importavano ogni prelibatezza dal Portogallo, dai regni spagnoli di Aragona e Castiglia, dall’araba Granada, e successivamente dalle Americhe spagnola e portoghese, ma anche dalla Tunisia, dall’Algeria, dal Marocco, senza per questo disprezzare le celebri rotte orientali.
Gli inventari di bordo delle navi e gli elenchi delle merci in transito per la Dogana, all’epoca situata nel più famoso edificio della città, Palazzo San Giorgio, rappresentano efficacemente ciò che i genovesi hanno imparato a mettere in tavola nel corso dei secoli, esprimendo un “sistema” culinario decisamente complesso, derivato da manipolazioni innovative e fantasiose delle materie prime, frutto di tecniche qui sperimentate per la prima volta, con alla base un grande equilibrio nel dosaggio dei vari ingredienti, come le spezie prima e le erbe aromatiche in seguito. Né contadini, né pescatori, né allevatori, i genovesi trovarono dunque il modo di accumulare del denaro facendo il minimo indispensabile di fatica fisica: l’attività commerciale portò loro ingenti ricchezze, che vennero successivamente convertite in rendite finanziarie. Le famiglie nobili e alto-borghesi conducevano una vita agiata e sedentaria nei palazzi di città o nelle ville di campagna. Quindi la dieta doveva essere gustosa ma leggera, raffinata ma digeribile, per mantenere in buona salute personaggi che muovevano milioni e prestavano denaro a tutte le principali potenze europee. Sembra di parlare di una delle grandi città cosmopolite del mondo attuale, ma in effetti, in un certo senso, Genova era già tale nel Medioevo. Non è un caso che le esigenze alimentari di cibi grassi e proteine animali tipiche di altre regioni in prevalenza agricole qui non trovassero riscontro. Al contrario, prevalse una cucina ricca di verdura, frutta, cereali, poco pesce, carni bianche di capra, pollo e coniglio, potremmo dire in linea con la dieta consigliata oggi dai nostri nutrizionisti.
Fino a questo momento, si è parlato principalmente della tradizione gastronomica genovese, che ha un ruolo dominante, a livello regionale, tanto quanto la città capoluogo lo ha in una miriade di altri settori, ma anche l’entroterra e le due Riviere hanno dato il loro importante contributo. La pazienza dei liguri ha saputo trarre dai suoi impervi terreni colture a terrazze, sviluppando in particolare l’orticoltura e, in minor misura, la frutticoltura. Un tempo sul litorale erano abbondanti gli agrumi: limoni, arance, cedri, melangoli (arance amare) venivano ampiamente esportati e utilizzati in cucina, nella preparazione di salse, utilizzando sia il succo che la scorza. Più tardi gli spazi pianeggianti del litorale ricoperti di piante di agrumi lasciarono spazio all’edilizia popolare, ponendo la parola fine a questa caratteristica naturale del suolo. Grazie all’orticoltura nacquero dunque zuppe deliziose, paste ripiene con erbe coltivate o selvatiche e torte di verdura. Senza dimenticare che la Repubblica di Genova, per mantenere la pace sociale, ebbe sempre un occhio di riguardo per i bisogni alimentari della popolazione della città e del Dominio, importando dall’estero i generi di prima necessità necessari al nutrimento degli abitanti in caso di carestia. Non è un caso che i Magazzini dell’Annona al Molo Vecchio e l’Albergo dei Poveri a Castelletto siano state due tra le istituzioni più grandi e importanti a livello mediterraneo per il periodo dell’Antico Regime.
La pesca era un’attività abbastanza diffusa lungo la costa, ma non organizzata in maniera industriale, perché il Mar Ligure era considerato infido e pericoloso: vorticoso, profondo e attraversato da forti venti e correnti, risultava relativamente poco pescoso. Non a caso, infatti, il pesce fu considerato a lungo il cibo dei poveri, che ne ricavavano l’apporto proteico necessario al loro sostentamento. La pesca non era ritenuta un’attività molto remunerativa, perché richiedeva un forte investimento per le imbarcazioni e una buona organizzazione per lo smercio del pescato in tempi brevi (data la sua deteriorabilità), così venne trascurata, se non per un tipo specifico di pesca, quella delle acciughe e dei tonni, per i quali furono presto trovati sistemi per la conservazione sottolio o sotto sale. Per il resto si preferiva importare pesci secchi come lo stoccafisso o il baccalà, il caviale in salamoia, il mosciame (filetto di delfino essiccato) e le bottarghe, che potevano essere facilmente conservati e trasportati anche a lunga distanza.
Nei magazzini di Sottoripa i genovesi conservavano il prezioso olio, usato ampiamente in cucina al posto del burro, che, prima di tutto, era poco conservabile e difficile da importare in tempi in cui non esistevano celle frigorifere e, in secondo luogo, non veniva nemmeno prodotto in Liguria, a causa dell’assenza pressoché totale di allevamenti di bovini. Al limite si usavano strutto e lardo di maiale, ma su tutto prevaleva senza dubbio l’olio. Ma nemmeno l’ulivo cresceva rigoglioso sulle pendici dei monti. All’inizio questo condimento era estratto dalla frutta secca e in particolare dalle noci. Alcuni documenti testimoniano l’esistenza di scambi di noci e nocciole con il Piemonte: alcune venivano usate in cucina o mangiate al naturale, altre venivano trasformate in olio. Dopo l’arrivo dell’olio di oliva, quello di noci rimase molto usato tra le classi sociali meno abbienti, anche se esistono tra i suoi estimatori esempi di uomini celebri e facoltosi: Eugenio Montale, Nobel per la letteratura e anche raffinato gourmet, amava mantenere la remota tradizione di consumare il bollito misto condito con olio di noci e sale grosso. Oggi l’olio di noci è ben poco diffuso e si trova più facilmente nella vicina Provenza che non nella stessa Liguria.
Ai ricchi mercanti piaceva invece l’olio d’oliva, che in principio veniva importato dal centro Italia e poi dalla Puglia, per arricchire di gusto quello prodotto localmente. Ma quando arrivò l’ulivo in Liguria? La versione più accreditata sostiene che furono i monaci benedettini, presenti con i loro monasteri in tutta la Liguria sin dal IX secolo, a trapiantare la preziosa pianta da queste parti. I monaci portarono con sé la loro civiltà alimentare ovunque andarono, continuando a usare olio d’oliva anche nelle terre tradizionalmente consumatrici di burro: dove era possibile avviavano colture di ulivi, altrimenti importavano l’olio anche da lontano. Sembra che i liguri, già consumatori di olio, ben presto abbiano imparato ad apprezzare lo stile alimentare obbligatorio per i benedettini, trasformandolo in una loro abitudine, per altro in linea con la tendenza, in particolare dei genovesi, di mangiare carni magre, ben sgrassate e condite con olio. La varietà di olive che trovò sin da allora clima e terreno favorevole è l’attuale “taggiasca”, detta anche “lavagnina” nella riviera intorno appunto alla località di Lavagna. Queste olive, piccole, scure e gustose, oltre a essere trasformate in olio, furono da subito conservate in salamoia per poi venire gustate semplicemente come golosità, oppure usate in numerose ricette. Se già dopo le Crociate l’olio d’oliva era una realtà ben radicata, solo a partire dall’Ottocento la produzione fu estesa su scala sempre più ampia.
Il primato della diffusione della pasta secca in Italia sembra spetti ai genovesi. Certamente essi la scoprirono prima di Marco Polo: ci sono documenti che provano rapporti commerciali tra Genova e l’Oriente, antecedenti di circa 15 anni rispetto alla prima spedizione di Niccolò e Matteo Polo, padre e zio di Marco. Durante i loro viaggi attraverso lo sterminato impero mongolo nella prima metà del XIII secolo, i mercanti genovesi scoprirono un metodo innovativo per approvvigionarsi di carboidrati. Le donne mongole, che insieme ai loro mariti conducevano una vita errabonda basata su una ferrea organizzazione militare fatta di frequenti spostamenti e continui accampamenti, non avevano il tempo di produrre pani e focacce lievitati e, in alternativa, usavano acqua e farina per preparare particolari listarelle di pasta essiccata, facili da tenere di scorta, per poi farle rinvenire in acqua all’occorrenza. I genovesi appresero la tecnica con cui le donne mongole preparavano questa loro specialità: esse arrotolavano sottili fogli di pasta lunghi e stretti intorno a fili di ferro, ottenendo una sorta di lungo e stretto maccherone. Molto probabilmente, questo fu l’antenato dell’antico maccherone ligure, detto appunto “al ferretto”. Altri formati di pasta ligure, come le trofie, mantengono ancora la caratteristica di essere preparati con il ferretto.
È giusto ricordare che, comunque, le prime trofie furono preparate molto più tardi, con un impasto a base di patate, un tubero di provenienza americana. La praticità della pasta in uso fra i mongoli fu subito apprezzata e i genovesi iniziarono ad aggiungere questo alimento nell’assortimento dei loro empori in patria. Altri documenti attestano la produzione di pasta secca in Liguria: tra il Quattrocento e il Cinquecento si diffuse la produzione artigianale di “fidei” e nel 1574 nacque la Corporazione dei pastai o maestri “fidelari”. Ma la storia di questo alimento, fresco o secco che sia, è senza dubbio complessa: si può anche parlare del ritrovamento in siti etruschi di strumenti molto simili a quelli per la lavorazione della pasta; ci sono poi fonti che testimoniano la presenza degli antenati degli spaghetti in Sicilia intorno al Mille. Probabilmente la verità non è una sola, certo è che i genovesi si diedero da fare più degli altri per commercializzare questo prodotto.
L’aria salina della costa e quella umida dell’entroterra sono fattori climatici poco favorevoli alla lievitazione naturale. Ma i genovesi, come abbiamo visto, non si diedero per vinti, adattandosi alle proibitive caratteristiche della loro terra per ricavarne il giusto sostentamento: se era difficile ottenere quotidianamente pagnotte gonfie e croccanti, dai loro forni fecero uscire meravigliose focacce salate e variamente condite, da alternare alle gallette o al “memorandum”, un pane gommoso, decisamente poco invitante, che infatti, con il passare del tempo, è scomparso. Appassionati com’erano di olio di oliva, provarono ad aggiungerlo al normale impasto per il pane e il risultato lo possiamo gustare tutti: la focaccia è un successo documentato per la prima volta verso la fine del Quattrocento e arrivato senza esitazioni fino ai nostri giorni.
Salse e ripieni a base di verdure o erbe aromatiche sono un’altra peculiarità della cucina ligure, che miscela con sapiente equilibrio più ingredienti fra di loro, ricavandone sapori nuovi, originali e unici. Spesso erbe aromatiche e verdure vengono mescolate con formaggi freschissimi, per diventare base di salse oppure componenti di ripieni per i pansoti (ravioli caratteristici della Liguria) o ancora di torte salate o cime farcite.
Le salse, in più, hanno spesso caratteristiche tali da consentirne la conservazione, e inizialmente erano rigorosamente senza pomodoro, che fu usato molto tardi dai liguri, i quali dopo la scoperta dell’America si lasciarono convincere dalle patate, dalla carne di tacchino, dal cacao, ma non dai pomodori. Anche le varietà coltivate da queste parti sono quelle cosiddette “da insalata”, l’unico modo in cui inizialmente si gustavano, condite semplicemente con olio. Prima di aggiungere il pomodoro nei sughi per la pasta, nella preparazione di minestre o per cucinare pesci in umido, ci volle molto tempo, secondo la tradizionale prudenza e circospezione del carattere ligure. L’esempio più conosciuto di salsa, appunto senza pomodoro, è il pesto alla genovese. Sarà forse una sorpresa per alcuni, ma questo popolarissimo condimento nel XVIII secolo ancora non esisteva. C’erano piuttosto salse ispirate a tradizioni orientali a base di semi oleosi come noci, pinoli e altra frutta secca insieme a quagliate di capra, che ricordano più la tipica salsa di noci di oggi che non il famoso pesto alla genovese.
Fu necessario attendere la seconda metà dell’Ottocento per vedere apparire quest’ultimo, poi il suo successo è stato esplosivo e dilagante. La sua prima versione prevedeva dunque tra gli ingredienti pinoli o noci battute insieme alla cagliata (successivamente denominata “prescinseua”), al basilico e all’olio di oliva. Al posto di questo formaggio fresco di capra, per via della minore acidità, si usavano talvolta ricotta o pecorino freschissimo; tradizione rimasta tutt’oggi nel pesto preparato nell’entroterra del Tigullio, tra Portofino e Zoagli. In epoche successive le noci (che dovevano essere rigorosamente fresche) furono sostituite del tutto dai pinoli e anche il formaggio cambiò al variare dei commerci di Genova. Pensate che quando il traffico di merci era fitto con l’Olanda, si provò a mettere nel pesto metà parmigiano grattugiato miscelato con una pari quantità di formaggio olandese.
In realtà, grazie agli scambi con la Sardegna, presto si preferì il pecorino con o senza parmigiano, oppure quest’ultimo da solo. Inizialmente considerato un cibo popolare, solo nel Novecento entrò nelle cucine delle famiglie benestanti: insieme alla pasta appariva nella lista della spesa di cucina degli Spinola, che gustavano trofie al pesto con l’aggiunta di patate, fave e fagiolini, talvolta zucchine, cotte insieme alla pasta stessa. Solo alla fine si univa il pesto. Oggi nel Genovesato è rimasta la tradizione di cucinare la pasta al pesto con le patate, talvolta anche con i fagiolini, di regola aggiunti solo con le trofie. Altro elemento presente era ed è l’aglio, in quantità variabili a seconda dei gusti, tenendo però conto dell’af¬fermazione del marchese Giuseppe Gavotti, per 25 anni attento gourmet dell’Accademia Italiana della Cucina in Liguria: lui sosteneva che il pesto deve essere duro, forte, maschio e maleducato! Insomma non si può rinunciare all’aglio, altro ingrediente che lo caratterizza. A proposito di sottigliezze, si ricordi che il pesto preparato per essere aggiunto all’ultimo istante nel minestrone alla genovese non vuole i pinoli.
Nel Medioevo e per tutto il Rinascimento erano le spezie a predominare sulle tavole delle famiglie altolocate ma, a partire dal Seicento, iniziarono a diffondersi le erbe aromatiche. Le prime erano segno di opulenza e di ricchezza, frutto dei proficui traffici dei genovesi con il Levante e il Ponente che portavano in Italia cannella, noce moscata, cardamomo, cassia, chiodi di garofano, rabarbaro, zenzero, zafferano e soprattutto pepe. L’uso frequente di queste spezie oggi è lontano pure nei ricordi e solo poche di esse, usate peraltro in quantità modeste, hanno resistito al trascorrere del tempo: si tratta della cannella, della noce moscata e dei chiodi di garofano. Il pepe nella cucina attuale si usa pochis¬simo, solo in rari casi sul pesce lessato, oppure come aromatizzante e conservante in certi particolari tipi di insaccati. Al contrario ora abbondano le erbe aromatiche: coltivate o selvatiche, si usano per preparare salse e profumare ripieni, con il pesce o con le carni. Preferibilmente fresche si usano tutte con grande maestria: origano, maggiorana, rosmarino, salvia, basilico, prezzemolo e poi le famose erbe selvatiche che compongono il “preboggion”, come il cavolo primaticcio o bieta selvatica, detta anche gaggia, la cicerbita, la pimpinella, il dente di leone e la borragine. Con proporzioni e composizioni diverse a seconda delle stagioni, queste erbe, con l’eventuale aggiunta di prezzemolo, si usano insieme a ricotta di pecora, parmigiano e aglio per preparare i pansoti, poi da servire con la salsa di noci.
Verso la fine del Settecento, la ricca borghesia ligure era costituita da mercanti e da banchieri di antichissimi casati e si lasciava ingolosire da piccole delizie preparate da artigiani locali. In questo periodo, la famiglia dei Romanengo iniziò la sua attività, ancora oggi florida, creando ricette arriva¬te fino a noi. Le specialità: croccanti di mandorla, torroncini, confetti, gelatine, cioccolatini, frutti canditi in grande varietà. Anche il cacao, dopo la scoperta dell’America, fu ampiamente commercializzato dai genovesi insieme allo zucchero di canna con cui venivano realizzati canditi di ogni genere: quando c’era abbondanza di arance, cedri e melangoli, la produzione si concentrava su canditi ottenuti sia dalle loro scorze sia dai frutti interi. Quando case e palazzi occuparono le poche zone piane che nel passato erano state il regno degli agrumeti, i pasticceri locali pensarono di variare la loro produzione, ideando così, oltre ai canditi di agrumi, anche quelli di ciliegie e amarene, di albicocche, prugne damaschine, meloni, pesche, pere, mele cotogne, zucche, ananas, fichi napoletani, nespole del Giappone e, dulcis in fundo, di marroni. Qualcuno dice che furono proprio i liguri (e non i francesi) a pensare per la prima volta ai marron glacé. In ogni caso, con le castagne raccolte in questa regione se ne producono di squisiti.
La difficile terra ligure non è molto ospitale nei confronti della vite, la quale, per le difficoltà della sua coltivazione, anche oggi dà pochi vini. Si tratta perlopiù di bianchi freschi e facili da bere, ma non privi di originalità. Non mancano bottiglie di qualità elevata, a cominciare dal vino delle Cinqueterre, soprattutto nell’incisiva versione dolce detta Sciacchetrà: pregiato e molto apprezzato, è però prodotto in quantità limitate e quindi riservato a una nicchia di appassionati. Possono raggiungere livelli espressivi degni di nota anche i Vermentino dei Colli di Luni, i Vermentino e i Pigato della Riviera di Ponente e anche taluni Rossese di Dolceacqua. Ricordiamo la tradizione del vino nuovo (il “nostralino”), legato all’abitudine montanara di berlo con le castagne arrostite o bollite. La grande difficoltà di coltivare la vite è stata contrastata dalla caparbietà dei liguri: il terreno impermeabile in superficie e le forti pendenze tendono a portare a valle le sostanze più ricche, a causa anche delle numerose piogge, e quindi difficilmente la terra trattiene in modo naturale l’humus. Perciò, è necessario sobbarcarsi una dura fatica per garantire un minimo di spessore allo strato di terreno fertile, tale da consentire il radicamento delle piante. Ma per fortuna, lo splendido sole che illumina per lunghi periodi dell’anno la regione, consente di ottenere delle uve di elevato contenuto zuccherino, che danno luogo a una robusta gradazione alcolica dei vini.
(Testo a cura di Aldo Caterino)
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