I Periodici del Risorgimento

di Ombretta Freschi e Guido Levi

ofreschi@yahoo.it; guidolevi@yahoo.com

 

Se si volesse datare la storia del giornalismo risorgimentale genovese, ci si dovrebbe voltare indietro rispetto alla data di uscita del primo numero del “Balilla” (31 luglio 1848), messo in rete dalla Biblioteca Universitaria di Genova, e l’attenzione dovrebbe spostarsi su Torino.

Nel gennaio, dopo i moti guidati da Nino Bixio e da Goffredo Mameli contro i gesuiti, Camillo Benso, conte di Cavour, uomo di stato e giornalista, concepì la proposta di presentare al re Carlo Alberto “un rispettoso ricorso, in cui fatta considerazione della gravissime contingenze della Liguria, si implorasse dalla Sovrana Magnanimità l’altissimo benefizio di una pubblica  discussione  in cospetto del paese in cui fossero rappresentate le opinioni, gli interessi e le occorrenze di tutta la nazione” (Della Peruta 2011). E, d’altra parte, erano stati gli uomini del “Comitato dell’Ordine”, promosso dal marchese Giorgio Doria, con a capo Vincenzo Ricci, a sostenere la causa liberalcostituzionale nel settembre del 1847 (Montale  1979; 1999).
Il primo ad aver voce – il 5 gennaio 1848, all’indomani dei tumulti genovesi – fu “La Lega Italiana”, il periodico, inizialmente ispirato da Terenzio Mamiani della Rovere, diretto da Domenico Buffa, fino al 21 marzo del 1848, futuro deputato, ministro e intendente generale di Genova, e sostenuto dal notabile Domenico Elena. Preceduto dalla semiufficiale “Gazzetta di Genova” e dal “Corriere mercantile”, che aveva innestato sul tronco della tradizione del foglio di avvisi commerciali il quotidiano che, già dal gennaio del 1844, sotto la direzione dell’editore Luigi Pellas, si era avviato a nuova vita come tribuna dei gruppi mercantili e armatoriali della città, dichiaratamente antimazziniano e liberista (Ratti 1973).

Alla fine degli anni quaranta dell’Ottocento il giornalismo genovese debuttò naturalmente con gli stilemi e gli orientamenti più che dei fogli democratici, repubblicani, mazziniani, dei giornali di ispirazione moderata e giobertiana (Montale 2001). Il tempo de “Il Diario del Popolo” e de “La Strega” fu  temporaneamente sospeso e covò in una “città contro” – come ha affermato Assereto – contro Torino, contro il governo piemontese, in un’opposizione nostalgica o eversiva che si nutriva di un repubblicanesimo mazziniano in esilio, che avrebbe avuto la sua consacrazione romana nel 1849, oppure che traeva forza dal passato e dalle glorie patrie, costituendo il culto di Colombo, “campione di genovesità”, di Andrea Doria e, spostandondolo in alto, diffondendolo e generalizzandolo, quello del ragazzino libertario, Ballila, che concentrava in sé il mito dell’Italia risorta (Assereto; Costa, 1998)
Fu l’Editto albertino sulla stampa, modello della legge dello Stato unitario in materia, a dare la stura alle schiere di testate che dal 1848, in particolare dal marzo 1848 al marzo 1849, lungo il crinale costituito dal “decennio di preparazione”, diedero voce all’opinione pubblica.

I periodici messi in rete dalla Biblioteca Universitaria offrono materiale per riflettere su alcuni nodi ancora aperti nella ricerca sulla storia dei media e confermano alcune caratteristiche di fondo del giornalismo italiano.

Il primo nodo si individua proprio nel rapporto giornalismo e storia, a comprendere come il giornalismo abbia raccontato la storia, e quale storia, e come i media abbiamo fatto un “uso pubblico della storia” (l’espressione è di Jürgen Habermas e risale al dibattito scoppiato intorno allo Historikerstreit e alla seconda metà degli anni ’80) in un tempo presente onnivoro e dittatoriale. La ricerca storiografica si è spinta ad analizzare il posto che oggi occupa la storia nella “cultura diffusa” e alla svalutazione della “storia come strumento di conoscenza” rispetto al valore della memoria. E’ un tema imponente, approfondito per alcuni periodi ed eventi (come il nazionalsocialismo, la Shoah, la Resistenza) e che si apre nuovamente, e con nuove prospettive, con le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia in una società innervata dai media tradizionali e digitali, “onnipresenti e sfocati”. E non è un caso che Mario Isnenghi, proprio nel 2011, abbia dato alle stampe una Storia d’Italia che non si legge per luoghi della memoria, ma per percezioni dei fatti, secondo una suggestione quotidiana fornita dal “lessico giornalistico” e dalla “cronaca d’ogni giorno”, in una realtà virtuale o fiction tout court, dove ciò che conta è ciò che uno “percepisce” e “non il fatto in se stesso” e che i termini di questa narrazione storica nazionale Isnenghi li abbia posti tra il Risorgimento e la “società dello spettacolo” (Rusconi 1987; Tranfaglia 1989; Augé 2009; Gallerano 1995; Ortoleva 2009; Romano e Tartaglia 2011; Banti 2004; Isnenghi 2011).

L’analisi deve riprendere poi alcuni dati di fatto, storicamente rilevanti, e utilizzarli come chiavi di lettura del valore della carta stampata e della libertà di stampa nel tempo presente, nella crisi del “lavoro dei giornalisti” e del settore in Italia come nel mondo (Anselmi 2011).
In primis il ruolo che i giornali furono chiamati a svolgere per la causa nazionale. Come ha scritto Valerio Castronovo, nella prefazione alla ristampa del saggio di Franco Della Peruta su Il giornalismo italiano del Risorgimento (2011), “la stampa [fu] una componente importante tanto nella creazione di un senso di appartenenza a una patria comune, quindi nella ragione d’essere di un’identità e di una vocazione nazionale; nonché il fulcro di un’opera di educazione politica e civile attraverso il dispiegamento sulle sue colonne degli orientamenti e dei propositi di quanti furono protagonisti, da differenti posizioni, del Risorgimento”.
I giornalisti costruirono e divulgarono l’idea della nazione. E a Genova, come ha scritto Balestreri, il giornalismo fu “già, avant la lettre, il giornalismo dell’Italia una”.

Il risvolto dell’opera si individua nel debito che la stampa contrasse con la politica. Un debito che non fu mai estinto e che avrebbe finito per divenire caratteristica prima dei giornali e poi dei media italiani. Le testate furono fondate per prendere parte alla vita politica e pubblica e si fecero espressione di gruppi, circoli, associazioni o coalizioni di governo tout court che li utilizzarono come strumenti (oggi, nella società dell’informazione, interconnessa e globalizzata, si direbbe organi di pressione, di lobbying, o “capitali simbolici”, Ortoleva 1998).
Si pensi a Camillo Benso conte di Cavour, statista e al suo giornale, il “Il Risorgimento”, a Giuseppe Mazzini, l’Esule, giornalista e “apostolo” del giornalismo,  e alla “Giovine Italia”, fondata a Marsiglia, nel 1832. A  Carlo Cattaneo, fondatore de “Il Politecnico”, che prima delle “cinque giornate di Milano” tentò di definire con sarcasmo il mestiere: “Io sono giornalista; il che vuol dire uomo che sta lì al giorno al giorno: le cose della settima scorsa per me sono cose morte, stramorte, antiche come le mummie” (Galante Garrone 1979)
Stando ai periodici liguri, se si volesse, si potrebbe leggere il filo rosso della commistione fra politica e carta stampata senza soluzione di continuità, ad esempio, dal quotidiano mazziniano genovese (e non solo) per antonomasia  "Italia e Popolo” (dal 22 maggio 1851 al 14 maggio 1857) al quotidiano di opinione, unico foglio nazionale, “giornale partito” e di “disintermediazione dai partiti della sinistra e del centrosinistra”, che sarebbe stato fondato più di un secolo dopo, “la Repubblica” (sospendendo il discorso sul citizen journalism, sulla Rete, sui flussi informativi prodotti dai network sociali; Agostini 2006; Granieri 2006).

Lo studio della stampa risorgimentale getta luce su altro aspetto: fra Settecento e Ottocento si espresse la prima identità dei compilatori dei fogli, non ancora giornalisti e per lungo tempo mai “giornalisti puri”, letterati, poeti, ma soprattutto notabili usciti da studi notarili o di giurisprudenza, e naturalmente patrioti, uomini di governo, militanti. Arrivando alla storia risorgimentale furono gli Accame, gli Alizeri, i Barrili, Buffa, Bettini, Bixio, Borgonovo, Campanella, Mameli, Papa, Priario, Savi, e anche gli esuli politici, soprattutto veneti, che avevano trovato rifugio negli Stati Sardi come Filippo De Boni, Alberto Mario, Luigi Mercantini, Maurizio Quadrio, Aurelio Saffi.
Nei loro “pezzi”, lasciando ad altre sedi la critica testuale e la riflessione sullo sviluppo di generi e di stili, ciò che fuoriesce con forza è il concetto di “missione”, ancora in nuce, ma destinato a rafforzarsi e ad unire tutti, mazziniani e moderati, democratici e conservatori, e a maturare, mutando i toni e guadagnando altre consapevolezze dall’età giolittiana alla prima guerra mondiale, il fine dei pionieri del giornalismo contemporaneo, come Dario Papa, Carlo Romussi, Luigi Cesana, Eugenio Torelli-Viollier, Luigi Albertini, Alfredo Frassati, Alberto Bergamini (Della Peruta 2011; Castronovo 1991; Asor Rosa 1981; Contorbia 2007): “La stampa periodica è […] una potenza; anzi è la sola potenza dei tempi moderni. / Lo è per i mezzi di cui dispone e per la natura stessa del suo apostolato; perché parla e insiste […] parla a tutti e a ciascuno; alle moltitudini come all’individuo; si rivolge a tutte le classi; discute tutte le questioni […] raddoppia tutte le forze; è per l’intelletto ciò che il vapore è per l’industria” – aveva proclamato Mazzini in uno scritto del 1836. Altri si sarebbero aggiunti. Luigi Arnaldo Vassallo, direttore del genovese “Il Secolo XIX”, avrebbe esaltato, nel suo editoriale di insediamento dell’aprile 1897, un “giornalismo che è diventato una necessità prima della esistenza, che ha preso posto a dirittura accanto al pan quotidiano del paternostro, di quel giornalismo che insomma vive di pubblico e per il pubblico, e non potrebbe degnamente vivere se non col pubblico. […] E più s’andrà avanti e più complessa, organica, stupenda diventerà la funzione quotidiana del giornalismo che tende irresistibilmente a diventare una grande energia collettiva, che richiede capitali ingenti e compagine numerosa di attività, di sagacità, di pronti ingegni” (Ginella Capini 1996; Freschi 2005).
La tesi della missione del giornalismo ha raggiunto i giorni nostri, ma in rari casi e in circostanze d’eccezione. Ezio Mauro ha scritto la parola, onorandola, a ricordo di Giuseppe D’avanzo e della sua “intelligenza degli avvenimenti” e, diversamente, in memoria di Giorgio Bocca, “partigiano”, “provinciale maestro di stile”, recentemente scomparsi (Mauro 2011).
Negli anni del Risorgimento, d’altra parte, la missione, l’apostolato, il sacerdozio apparivano ardui in un paese reale non collegato dalle comunicazioni, dove l’analfabetismo toccava punte elevate e il 90% degli italiani, anche al momento dell’Unità, sarebbe stato escluso dai meccanismi della politica e quindi non avrebbe manifestato alcun interesse per la carta stampata. E la missione sarebbe divenuta un ideale verso il quale “il giornalismo si sarebbe sentito estraneo, escluso e, nella migliore delle ipotesi, paternalistico” (Recuperati 1981).

Infine, con la storia del “Corriere Mercantile”, alla vigilia dell’unificazione, si schiude anche una prospettiva per riflettere da vicino su una stortura radicata nei media (e non solo italiani): il foglio costituì un primo esempio di quotidiano vicino ad interessi economici e, in una certa misura, funzionale ad essi. Fu la tribuna dell’armatore Raffaele Rubattino, sicuramente finanziatore del giornale (e di altri giornali e giornali) e con lui, di Giacomo Filippo Penco, di Giuseppe Balduino e di Carlo Bombrini, maggiorenti cittadini ed esponenti di spicco della classe imprenditoriale del paese. Sulla stessa traccia, con un disegno imponente e ambizioso, si sarebbe posto “Il Secolo XIX” dal marzo del 1897, sotto la guida di Ferdinando Maria Perrone, editore-giornalista e poi imprenditore a capo dell’Ansaldo, la più importante industria meccanica italiana del tempo.

Restano le peculiarità e gli sviluppi del giornalismo locale che si prendono in considerazione a partire dai casi messi in rete e all’interno delle cerniere cronologiche proprie della vicenda risorgimentale: la concessione dell’editto sulla stampa (26 marzo 1848); l’inizio della prima guerra di indipendenza e gli armistizi firmati dal generale Carlo Canera di Salasco (9 agosto 1848) e, a Vignale, da Vittorio Emanuele II (24 marzo 1849); l’insurrezione di Genova e la repressione del generale Alfonso La Marmora , nel 1849 contro i Savoia (marzo-aprile 1849); il “decennio di preparazione” che suggellò, nonostante le modifiche repressive apportate all’editto nel 1852 e nel 1858, “il momento migliore del giornalismo genovese”, per il livello dei collaboratori e degli scritti, per il grado di indipendenza di cui le testate godettero rispetto a quelle torinesi, per l’aumento delle iniziative editorial-giornalistiche soprattutto mazziniane e democratiche (altro elemento di differenziazione dalla carta stampata piemontese ed esito dell’attività di propaganda svolta dai militanti anche tra i ceti popolari); lo sviluppo economico realizzato sotto i ministeri del Conte Cavour e attraverso una strategia di “conciliazione” con Genova e di alleanza con una parte della classe dirigente genovese; il 1860 e Genova, città di Giuseppe Garibaldi , di Nino Bixio e dei Mille, “centro più vivo e vitale delle proposte e della protesta democratiche” fino alla breccia di Porta Pia, al quale si dovrebbe aggiungere, come luogo della memoria conclusivo, il 1872-la morte di Mazzini, la sua apoteosi e il suo “culto”, uno degli elementi fondamentali nella costruzione e nella pratica politica repubblicane.

L’indagine non ha alcuna pretesa di esaustività (il primo esempio di lacuna è rappresentato dal periodico “La donna”, 1855-1858, che avrebbe potuto dare spazio al ruolo svolto dal patriottismo femminile e dalle prime tematiche di genere) e lascia appositamente interrogativi come ipotesi di lavoro all’interno di una struttura ipertestuale che consentirà di integrare  riflessioni, di aggiungere dati, nonché di elaborare schede su altri periodici, giornalisti e tipografi.  (Balestreri 1952; Della Peruta 2011; Montale 1999; Assereto 1994; Castronovo 1994; M.E. Tonizzi 2011; Luzzatto 2001; Finelli 2007, Ratti 1973).