U&P_small Sulla cattiva fama dei gesuiti nella pratica inquisitoriale pesa probabilmente il giudizio che, a ragione, ha colpito i  membri degli altri ordini religiosi che vi furono coinvolti,  francescani e domenicani in particolare. E’ indubbio che, come i  membri degli altri ordini, anche i gesuiti  si applicarono con solerzia nel compito della “reduzione” degli eretici, e cioè nel condurli al pentimento e alla riconciliazione con la Chiesa prima della loro messa a morte,  ma, sembra, con minore accanimento e, forse a causa di più sottili strumenti psicologici, con  maggiore efficacia. Per illustrare la differenza tra la disposizione dei gesuiti e quella dei domenicani in ambito inquisitoriale,  sono paradigmatici i comportamenti del domenicano cardinal Michele Ghislieri, “grande inquisitore” a Roma, e del suo inviato in Puglia, con compiti e responsabilità inquisitoriali, il gesuita p. Cristoforo Rodriguez: “Il pentimento era il fine a cui il gesuita e il domenicano congiuntamente tendevano. Ma dal loro epistolario si capisce che c’erano divergenze sulla strada migliore per arrivare a quell’obiettivo. Rodriguez chiedeva mitezza di pene, penitenze segrete e non pubbliche umiliazioni, dolcezza nell’approccio alle persone. Ghislieri era convinto invece che il vero pentimento si misurasse dalla collaborazione effettiva offerta dai pentiti con rivelazioni e denunzie e che solo in questo caso si potessero offrire sconti di pena. La rete ereticale che egli voleva disfare si estendeva dalla Puglia al Piemonte e alla Francia ; e per questo insisteva a chiedere che ognuno confessasse «i complici, non suol di luor terra, ma di tuotti li altri luoci, in Puglia, Piamonti, Franza, o ove si sia, perché altrimenti saria pegio per lor, che sariano fentamente convertiti, e sarian, quando si ritrovassi vero che malitiosamente gli havesero taciuti, puniti di pena di  relapsi». Insomma, per Rodriguez bastava il pentimento della confessione, mentre il Ghislieri voleva qualcosa di diverso. Non era un’opposizione radicale : riguardava i mezzi, non i fini. Tanto è vero che i due collaborarono con reciproca soddisfazione.” 
Cfr.: Antonio Prosperi,  Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari  Torino, Einaudi, 1996; p. 13.

Anche nei confronti dei “nuovi cristiani” (musulmani ed ebrei convertiti al cattolicesimo) i gesuiti  mostrarono sempre un atteggiamento meno sospettoso e più tollerante di altri, al punto che,  a eccezione di un breve periodo, non elaborarono alcuna norma che vietasse il loro ingresso nell’Ordine: “Nel pesante clima inquisitoriale venutosi a creare, dopo la scoperta di comunità eterodosse a Valladolid e a Siviglia nel 1558-60, mentre la corona spagnola si ergeva a difesa della religione ormai nuda e abbandonata, come ricorda il quadro commissionato a Tiziano da Filippo II (1566-1575), e si rinchiudeva nell’ideologia della limpieza de sangre, Borja spalancava l’ordine gesuitico ai conversos.”  [Michela Catto La Compagnia divisa. Il dissenso gesuitico tra ‘500 e ‘600  Brescia: Morcelliana, 2009, p. 41-2] Quando la Compagnia dovette uniformarsi ai dettami inquisitoriali arrivò sino a mascherare la propria storia. Bisogna ricordare, infatti, che anche tra i fondatori stessi della Compagnia vi erano alcuni “nuovi cristiani” e quando il biografo e storico ufficiale della Compagnia di Gesù, Francesco Sacchini, si applicò a scrivere la sua Historia Societatis Jesu fece non poca fatica a non fare trasparire certi particolari “sconvenienti”.