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La confessione era per i gesuiti uno dei fondamenti dell’Ordine e, al tempo stesso, poteva anche essere uno dei più efficaci strumenti di governo. Fu questo potenziale a suscitare, soprattutto da parte dei domenicani,  aspre critiche nei loro confronti, sebbene non poche resistenze venissero anche dall’interno e cioè da quei padri gesuiti che volevano a tutti i costi evitare coinvolgimenti con la politica. Né si possono dimenticare altri due aspetti della confessione gesuitica che stimolarono accese discussioni, sospetti e accuse. Il primo è quello della confessione epistolare (“per litteras seu internuntium”), ammessa o addirittura favorita da alcuni gesuiti (primo fra tutti, Francisco Suarez). Fonte di sospetti ancora maggiore è però l’altro aspetto, quello del privilegio di assolvere gli eretici loro concesso (prima oralmente, poi con il breve Sacrae religionis del 22 ottobre 1552) da papa Giulio III.   Non è dunque certo un caso che una rilevante porzione della libellistica a danno dei gesuiti sia proprio dedicata alla confessione, arrivando anche a formulare pesanti insinuazioni nei loro confronti. Queste insinuazioni ebbero talvolta serie conseguenze, tanto è vero che non pochi sono stati i casi in cui si vedevano gesuiti inquisiti per sollicitationes ad turpia. I gesuiti, tra l’altro, furono anche vittime dei loro tempi. Infatti fino ai primi decenni del Cinquecento l’attenzione dei confessori era principalmente rivolta verso l’eresia e verso “peccati sociali” quali l’avarizia. Fu nel periodo in venne fondata la Societas che i teologi cattolici compresero che la partita doveva giocarsi sul controllo della libertà individuale e quindi sul controllo dei pensieri, delle intenzioni, sulla penetrazione dei segreti e, di conseguenza, l’attenzione si spostò verso la lussuria. Ma se da un lato, come faceva notare proprio in quegli anni Erasmo da Rotterdam, vi erano dei rischi nel fatto che un uomo, e per di più celibe,  portasse il discorso su argomenti pruriginosi, dall’altro lato il concilio tridentino aveva dato precise disposizioni affinché il penitente non celasse nulla al confessore il quale, a sua volta, doveva condurre un’indagine il più possibile approfondita e  minuziosa. Con questi presupposti era inevitabile che i gesuiti, che nella confessione avevano uno dei loro punti di forza, si potessero trovare in situazioni ambigue e si esponessero, a ragione o a torto, ad accuse anche pesanti. É per evitare certe situazioni, e le conseguenti insinuazioni o accuse, che si rese necessario introdurre una barriera architettonica tra confessore e penitente ed è dunque in quel periodo che, soprattutto grazie all’intervento di Carlo Borromeo, si sviluppò, a partire da una tavoletta divisoria (il confessorium) introdotto dal vescovo di Verona Gian Matteo Giberti), il mobile del confessionale.